Metodologia

Emma A.Viviani – Presidente. Sociologa, ideatrice e fondatrice di Araba Fenice onlus.

Un’ esperienza di autoprogettazione nel campo delle dipendenze…
“Costruire un aprco, costruire la propria vita”

Il Ser.T: da luogo stigmatizzante a luogo promotore di cultura

Il Ser.T di Viareggio è ubicato all’interno di un quartiere periferico della città. Eroga le proprie prestazioni all’incirca dagli anni Novanta ed è frequentato da individui che hanno la necessità o proprio l’obbligo di rivolgersi al servizio per le problematiche di tossicodipendenza e alcoldipendenza, in relazione a difficoltà di salute e, moltospesso, a vicende giudiziarie.

Le condizioni strutturali fatiscenti della sede — che richiederebbero ancora oggi maggiore attenzione sono state il principale stimolo a progetti innovativi all’interno del servizio e sul territorio circostante. Le condizioni degradate della sede,oltre a favorire la stigmatizzazione, non erano stimolanti al recupero; ma, al contrario, invitavano a una trascuratezza ulteriore da parte degli utenti, incrementavano il loro decadimento morale e materiale e ponevano gli operatori nell’impossibilità di attuare cambiamenti.

Emergevano pertanto due ambiti di considerazioni: da una parte la necessità di un luogo più accogliente, che si presentasse esteticamente adeguato al servizio, offrendo all’utente sicurezza e disponibilità; dall’altra l’opportunità di attivare lo stesso utente, responsabilizzandolo all’interno della sede per la cura degli spazi che dovevano essere mantenuti ordinati e puliti. Partendo da questo, agli inizi del 2002 si inizia ad abbozzare un progetto di ricerca-intervento per la formazione di un gruppo di auto/mutuo aiuto. In questa fase, la scrivente e alcuni operatori decidono di attivarsi seguendo tre linee.

1°- Agire sullo spazio
Il degrado e le caratteristiche stigmatizzanti della sede emergevano chiaramente anche nelle considerazioni degli utenti, che manifestavano l’esigenza di un miglioramento interno ed esterno, nonché una maggiore apertura del servizio in relazione ad altri soggetti presenti sul territorio. In considerazione dell’attaccamento dei «tossici» alla sede del Ser.T, si decise di operare una trasformazione degli spazi, offrendo agli utenti la possibilità di essere protagonisti di un cambiamento sia degli spazi esternialla sede, sia di quelli interni.

2° – Interagire nelle dinamiche di gruppo
Gli individui che sostavano fuori dalle pareti del Ser.T mostravano caratteristiche diverse: alcuni erano completamente dipendenti da sostanze stupefacenti; altri, bene inseriti in attività lavorative, sostavano lì per la somministrazione metadonica o farmacologica, ma dimostravano un notevole grado di recupero.

3° – Offrire stimoli nuovi nei momenti socializzanti
Il momento della somministrazione del metadone non era solo un atto terapeutico ripetitivo, ma anche un’occasione di ritrovo e socializzazione, che costituiva una rappresentazione dello stare insieme nella condivisione di esperienze simili. L’osservazione portava a intuire la necessità di dar vita a momenti socializzanti guidati, tali da non mettere a rischio chi intendeva proseguire un programma di recupero. Sviluppando il lavoro «sul campo» ,lavoro che si è lentamente consolidato nell’arco di due anni ,abbiamo ottenuto conferma delle nostre intuizioni: il sostare davanti alla sede aveva un significato profondo, riconducibile alla necessitàdi stare insieme. Il momento metadonico poteva, da una parte, essere considerato socializzante, ma dall’altra rappresentava, come accennato, un serio pericolo per chi intendeva recuperarsi: le dinamiche dello spaccio non erano assenti e per molti non era facile sottrarvisi. L’idea di offrire uno spazio socializzante all’interno della struttura significava accogliere e aiutare chi fosse realmente intenzionato ad allontanarsi dalle sostanze. Bisognava pertanto creare le condizioni necessarie perché ciò fosse compreso da questa «massa senza nome» che ogni giorno invadeva gli spazi esterni, i cui volti esprimevano sì sofferenza, ma anche aggressività e nessun desiderio di collaborazione.

L’idea è stata quella di lavorare sugli spazi occupati da tali persone e muovere dalla considerazione socio-antropologica che conquistare lo spazio significa amarlo. I messaggi che sono stati dati inizialmente erano quelli di lavorare insieme per ripulire gli spazi dalla spazzatura e creare un luogo dignitoso, manifestando rabbia e risentimento verso chi, dall’esterno, considerava il Ser.T come luogo-spazzatura. Il lavoro inizialmente è consistito nel ripulire dalle immondizie quello che attualmente è divenuto un giardino. Non veniva chiesto niente, spesso ci si presentava con la paletta in mano e la scopa e si notava che in qualcuno ogni giorno cresceva sempre più la volontà di cooperazione e collaborazione. I ruoli si mescolavano, utenti e operatori si ponevano su un piano di parità e,in un contesto completamente libero dalle formalità, emergevano alcuni volti che divenivano significativi per costruire le prime reti di conoscenze. Era inevitabile calarsi nelle singole difficoltà individuali che emergevano durante lo stare insieme: difficoltà di ordine pratico, quali reperire un alloggio, evitare il carcere, ripristinare un permesso di soggiorno scaduto. Nell’impegnarsi a fondo per trovare queste risposte, si notava che vi era altrettanto impegno da parte dell’utente per contraccambiare: proprio questo permetteva la collaborazione e la prosecuzione delle attività al Ser.T. Nasceva un capitale sociale che cresceva di giorno in giorno.

La promozione della partecipazione aveva come obiettivo principale il motivare a un cambiamento nello stile di vita e un graduale raggiungimento dei ritmi elementari della quotidianità (imparare a rispettare gli orari di lavoro, le regole dellostare insieme, ecc.). Si intendeva offrire alle persone stimoli concreti che potessero aiutarle a reinserirsi nel tessuto sociale, dopo periodi trascorsi in comunità, o periodi di detenzione, di disgregazioni familiari e disorientamento generale. In tale ottica, il Ser.T si avviava a diventare un laboratorio sociale per iniziare percorsi educativi che avrebbero potuto proseguire con l’aiuto di altri organismi presenti sul territorio. Nel 2003, l’Azienda decide di avviare i lavori di ristrutturazione degli spazi esterni.

Il gruppo compie i primi passi

La prima vera esperienza di gruppo è nata nel dicembre 2003, quando a uno «storico» del Ser.T venne l’idea di concretizzare in qualche modo i momenti socializzanti: «Non chiacchere, ma farina». L’idea era quella di provvedere ai bisogni alimentari di molti che frequentavano il servizio e che ora facevano parte del gruppo e alle famiglie più povere del Varignano, luogo di periferia dov’è situato il Ser.T, da cui provengono molti utenti. Viene attivata una raccolta alimentare e vengono distribuiti alimenti di prima necessità a 50 famiglie del quartiere. L’utente Ser.T non era più un fruitore di servizio ma, al contrario, era diventato un erogatore di servizi per la cittadinanza. Nasce «l’operatore-cittadino», com’è scritto su un cartellino che gli utenti indossano durante le attività di gruppo.

Il 2004 segna la nascita ufficiale dell’Araba Fenice, che l’Azienda ASL Versilia riconosce come gruppo di auto mutuo/aiuto, di cui chi scrive è la referente. Nel settembre 2004 si avvia una nuova esperienza, che offre al gruppo la possibilità di attivarsi totalmente fuori dalle mura del Ser.T. Questo sforzo di apertura del Ser.T viene notato da organismi territoriali che offrono la loro collaborazione ad Araba Fenice.

Un nuovo lavoro terapeutico : l’ autoprogettazione di un’area verde

La Circoscrizione decide di affidare all’Araba Fenice la realizzazione di un progetto che riguarda il rifacimento di una vasta area verde ubicata nella zona del Varignano.L’area si componeva di un campo da calcio per ragazzi, andato in disuso, uno spazio di parco da arredare con giochi per bambini e ragazzi e una zona da ripulire completamente da sterpaglie e rovi, divenuta ormai impenetrabile dall’esterno. I componenti del gruppo si dimostrano molto interessati. Nasce subito un forte entusiasmo per ripristinare l’area e renderla vivibile per le famiglie del quartiere. La zona manifesta notevoli problematiche di degrado morale e materiale che presentano il rischio di comportamenti devianti da parte dei giovani e degli adulti, come attestano anche i dati del Ser.T (l’80% delle persone con problematiche giudiziarie provengono da zone degradate del quartiere). Come obiettivo primario si pone pertanto la necessità di costruire un dialogo con le famiglie del quartiere. L’idea è quella di creare momenti di partecipazione e di offrire alle famiglie la possibilità di conoscere il gruppo e creare una sempre maggiore comunicazione e adesione alle iniziative dello stesso.

Nel giugno del 2005 il gruppo si costituisce in Associazione Onlus. Accoglie anche cittadini stranieri e una vasta gamma di volontari che si impegnano nella riqualificazione dell’area che diverrà il parco La Fenice. Con la collaborazione di Silvano D’Alto, docente di Sociologia dell’ambiente all’Università di Pisa, ha inizio un lavoro di autoprogettazione dell’area: il docente, in qualità di architetto, stimola pensieri e traduce sulla carta le forti emozionalità del gruppo.

Un insieme di «ex-tossici» ancora in trattamento metadonico, di «galeotti» o di «buoni a nulla» inizia a pensare, a voler costruire qualche cosa di imponente che parli di loro a quella città che li esclude ogni giorno: un parco che trasmetta il forte sentimento di libertà che la maggior parte di loro sente vivamente dentro di sé, in quanto ha sperimentato la coercizione e la mancanza di libertà a cui riconduce il carcere.

Il ritrovo del sabato (giorno concesso ufficialmente dall’ASL alla scrivente per le attività di auto-aiuto) diviene una festa, poiché è il giorno degli incontri, è il giorno dove si sta bene perché il grigiore della settimana lascia il posto alla fantasia. Tutti divengono protagonisti di un disegno che non ha precedenti. Il lavoro procede su un piano di parità: ognuno può dire la sua e viene ascoltato, ogni pensiero è come se venisse inscatolato, niente di ciò che proviene dal profondo deve scomparire. Ogni suggerimento viene rielaborato insieme, discusso, criticato, accettato o modificato. Niente deve provenire dall’alto, essere imposto anche da chi ha potere: coloro che si inserivano in posizioni predominanti nuocevano alle dinamiche del gruppo. La condivisione degli obiettivi e la partecipazione a sostegno di posizioni nuove e diverse trasmettevano al gruppo sicurezza ed erano un forte stimolo a proseguire. Il lavoro veniva alternato a momenti di convivialità offerti da alcuni membri del gruppo, che portavano torte fatte in casa o dolci di pasticceria. Lavorando sull’idea comune di costruire un parco che fosse anche un giardino, si è pensato di realizzare un percorso dei fiori, dei colori, dei profumi e degli aromi, in cui si vivessero le diverse fioriture degli alberi al variare delle stagioni. La ricerca è partita dalle esperienze e i ricordi di vita di ciascuno: stimolando lo scambio di immagini, sensazioni, percezioni, rappresentazioni di momenti di vita, molto gradito dai partecipanti.

Il percorso è stato tracciato con una passeggiata comune lungo i margini del parco, soffermandosi di volta in volta per suggerire la collocazione di una pianta, di un cespuglio (lavanda, rosmarino, alloro, agrifoglio, ecc.), un roseto, uno spazio di sosta e di gioco, un belvedere, una fontanella per bere. Riportato su una planimetria di rilievo del parco, questo lavoro comune ha dato luogo al primo schema di massima, presentato con successo e con approvazione corale anche agli abitanti del quartiere, nella festa di inaugurazione del parco nel luglio 2006.

Il lavoro di progettazione è partito esplorando il rapporto tra le persone all’ Araba Fenice e gli spazi di vita. Nessuna esperienza è apparsa al gruppo più profondamente drammatica e vissuta di quella del carcere: è stata dunque elaborata una testimonianza condivisa del personale rapporto persona-carcere, accanto a una serie di altre singole testimonianze significative. Di seguito, è stato chiesto al gruppo di spostare la discussione e il punto di vista riflessivo ed emotivo verso un angolo prospettico concettualmente rovesciato rispetto alla drammaticità dell’esperienza individuale vissuta. Per dare concreta soluzione al progetto, si è passati successivamente a definire con gesti del corpo il senso del futuro stare insieme nello «spazio degli incontri». È nato così il pensiero di uno spazio che doveva essere «casa e più di casa», nel senso di comunicare anche all’esterno alla casa un senso di vita, di libertà e di benessere, di pace e di armonia. È stata scelta una parola, stimolata dal pittogramma e dagli scambi di sensazioni, di immagini, di esperienze: quella della pagoda, che secondo il gruppo coniugava il senso della casa, dell’armonia e della pace.

Successivamente è stato predisposto, da parte del docente, uno schema pro- gettuale tecnicamente impostato.Il parco La Fenice, attraverso l’autoprogettazione, permette non solo di realizzare un lavoro urbano utile alla cittadinanza, ma anche di offrire un «luogo rivelatore» di attitudini e inclinazioni naturali spesso nascoste da un’esistenza amara che ha deprivato il soggetto della propria interiorità. Permette momenti socializzanti e di incontro in un contesto permeato di emozionalità e sensazioni piacevoli, quale un giardino autocostruito.

Parco, Ser.T, quartiere: un cantiere sociale in città

Parco, Ser.T, quartiere: un cantiere sociale in città Il progetto, sulla base michelucciana di città come «cantiere social (Michelucci, 2002), muove dall’idea di creare forme nuove urbane che nascono dalle relazioni sociali, attraverso l’interpretazione dei semplici meccanismi di vita quotidiana delle persone. Lo spazio diviene agito e vissuto solo in relazione a chi lo frequenta. Pertanto alla base del nostro lavoro vi è la necessità di costruire relazioni significative nel quartiere e nel gruppo. È da queste relazioni, attraverso un lavoro autogestito, che nascono le idee per proseguire nella realizzazione del parco. Il parco si colloca come una gola all’interno di una zona costellata da case di edilizia economica e popolare, con abitazioni cedute temporaneamente dall’Amministrazione Comunale a famiglie in difficoltà. Gli abitanti sono per lo più famiglie di immigrati provenienti dal Sud Italia, impiantate nel quartiere Varignano negli anni Settanta. Oggi la popolazione è rappresentata dagli adulti, che nell’emigrazione degli anni Settanta erano bambini, i quali si sono dovuti adattare a condurre, per lo più, una vita di periferia, all’ombra delle vetrine di città e nei casermoni costruiti dal Comune per rispondere ai problemi della casa per gli immigrati. Famiglie per lo più assistite dai servizi sociali e dalle varie associazioni di volontariato zonale. Questa generazione degli anni Settanta è cresciuta riportando frustrazioni nel mondo scolastico e lavorativo, sedimentando ansie di rivincita e di successo che spesso hanno portato a uno stile di vita delinquenziale. Gli attuali utenti del Ser.T e i membri dell’Araba Fenice appartengono in molti casi a questa generazione. I loro figli continuano a vivere in situazioni disagiate e le risposte dall’alto delle istituzioni favoriscono l’emarginazione e la frustrazione. Molte donne vivono un rapporto conflittuale con i servizi di tutela minorile: sono state ritenute incapaci di crescere i figli e le istituzioni hanno provveduto con l’allontanamento e il collocamento in strutture. L’immagine che gli abitanti della zona hanno offerto a chi scrive è quella degli anni Settanta, in cui il Welfare State istituzionale provvedeva a trovare risposte per i «disgraziati». Nonostante le istituzioni abbiano cercato di integrare il quartiere con altre realtà territoriali meno disagiate,1 gli abitanti continuano a nutrire un senso di eparatezza.2 L’accettazione del nostro lavoro al parco, com’è stato più volte esplicitato da queste persone, nasce esclusivamente dal «sentirlo vicino al loro modo di essere». Sicuramente tale affermazione sottende storie condivise di epopee migratorie e di marginalità nel rapporto con la città escludente. Il parco, allora, diviene «la tana del leone» (come qualcuno l’ha definito): il luogo che accoglie il maggior numero di disagi e problemi del quartiere. Forse proprio per questo il Ser.T non fa paura, anzi, viene accolto in senso di fratellanza e mutualità. Peraltro, il collegamento parco-quartiere avviene in buona parte attraverso le dinamiche interne al Ser.T, in quanto molti vivono problemi di natura giudiziaria in relazione al carcere e alla detenzione territoriale.

Sono state intraprese esperienze di riconoscimento e di affermazione delle identità culturali, che hanno fornito ottimi risultati. I momenti in cui il gruppo lavorava intensamente per le feste natalizie, o alla costituzione della festa del luglio 2005, hanno visto una forte partecipazione del quartiere, che si è attivato mettendo a disposizione risorse individuali materiali, nonché cibi, che riecheggiano la nostalgia di casa.3 Tali momenti sono stati fondamentali per il lavoro del parco, in quanto densi di emozionalità e di significato nella considerazione della propria cultura di appartenenza, delle proprie radici, delle proprie storie di vita. Il cibo è risultato un forte elemento di aggregazione, per pance che spesso erano poco piene e per bocche in cui il sapore dei cibi era quello della mensa della Misericordia. Cibo, profumi, odori caratteristici sono divenuti i protagonisti invisibili dei legami tra la gente del quartiere e il gruppo di lavoro al parco. Da zona anonima ed escludente,4 il parco si è trasformato in zona di accoglienza, densa di relazioni umane, di antagonismi e di protagonismi. La varietà dei componenti del gruppo, tra cui molte persone straniere, rappresentanti le loro culture, ha dato vita a momenti socializzanti forti e originali, in cui il transculturalismo è divenuto un’ulteriore risorsa per l’integrazione. Tali momenti risultano costruttori di un tessuto comunitario in cui le problematiche della dipendenza, legate al carcere e all’esclusione sociale, vengono ridimensionate dal carattere cooperativo e partecipativo delle attività di autoprogettazione.

Il proseguo del lavoro pone attualmente alcune difficoltà di ordine pratico: la necessità di una sede operativa per un «laboratorio artigianale di idee e di strumenti» (il gruppo si è orientato per una falegnameria).5 Il lavoro per il parco è strettamente connesso agli spazi inadeguati del Ser.T. Pertanto, se non si provvede a una ristrutturazione dell’interno della sede del Ser.T,6 il gruppo necessita di unaltro spazio.

Ufficialmente, il quartiere si chiama oggi Viareggio-Nuova e include le zone Migliarina e Terminetto, abitate per lo più dani coppie, in quanto i prezzi — dagli anni Settanta — risultavano abbastanza bassi da consentire l’edificazione di villette singole o bifamiliari. Il costo delle case era comunque accessibile solo per lavoratori dipendenti o piccoli imprenditori, che potevano permettersi di stipulare un mutuo. I giovani frequentatori del parco che si sono uniti a noi, dai 15 ai 30 anni, continuano a nutrire sentimenti di affetto per il Varignano. Affermano che loro non hanno niente a che spartire con le altre zone. Si definiscono «odiati ma fieri» e vorrebbero un maggiore riconoscimento della propria identità. Le melanzane della mamma di Cesario sprigionano tutto il sapore napoletano di una cultura ricca di esperienza culinaria. La pastiera e le torte salate di mamme abitanti vicino al parco, nonché l’ottima pasticceria di Antonio, hanno permesso di vivere ogni volta momenti di convivialità intensi che hanno costruito le relazioni al parco. Da notare che nessuno aveva il coraggio di lasciare giocare i figli in quell’area in quanto piena di «siringhe di tossici».

Dall’autoprogettazione all’autocostruzione

A partire dalla considerazione del «cantiere sociale» di memoria michelucciana,il gruppo si esprime attualmente in una richiesta di autocostruzione. Il gruppo ha talmente maturato al suo interno le dinamiche del «progettare insieme», che i suoi componenti si sentono unici protagonisti anche del «costruire insieme». L’atteggiamento non va letto, come tenderebbero a fare alcuni rappresentanti delle istituzioni, come arroganza e senso di possessività teso a gestire qualcosa che non è proprio. Al contrario, la posizione del gruppo andrebbe letta come frutto di una rielaborazione che ha portato a incanalare rabbia e ira in percorsi costruttivi anziché distruttivi. A distanza di due anni, gli abitanti (di tutte le fasce di età) si sentono protagonisti della costruzione dell’area. Hanno fortemente recepito il messaggio che costruire il parco significa costruire qualche cosa di nuovo anche dentro di sé. Sono state raccolte quattrocento firme per sostenere la costruzione del parco. Come base per il lavoro di autocostruzione si chiede che le istituzioni riconoscano i lavoratori del quartiere, coloro che hanno partecipato attivamente all’autoprogettazione. Molti di questi personaggi sono costruttori in proprio, bravi artigiani del ferro e del legno, nonché capaci di soluzioni creative e originali con semplici mezzi. La loro vita difficile ha permesso di sviluppare capacità nell’arte dell’arrangiarsi e dell’immediato. La loro creatività nasce dalla ricerca di dare risposte a problemi concreti in mancanza di mezzi materiali. Quindi, offrire mezzi a queste persone significa creare non solo un notevole risparmio per le istituzioni, in termini economici, ma anche la possibilità che le costruzioni non subiscano danni, in quanto ciò che viene costruito nasce da un impegno comune del quartiere. Le linee di attuazione e programmatiche del progetto andrebbero ricercate insieme agli abitanti del quartiere, che diverrebbero così un grande capitale sociale con cui accompagnare di volta in volta le attività.

L’autoprogettazione e l’autocostruzione divengono cardini su cui impiantare esperienze di lavoro sociale sul territorio. Il parco diviene il teatro, lo scenario attraverso il quale sono possibili varie rappresentazioni di vita. L’area diviene rivelatrice di problematiche e insieme propulsore di energie per affrontarli. La zona è frequentata da molti giovani a rischio e il lavoro di autocostruzione potrebbe rappresentare un momento formativo e preventivo per i ragazzi che girovagano nel quartiere e dimostrano rabbia e malcontento per la propria situazione esistenziale. Il problema è grave, nel quartiere la microcriminalità è in costante aumento. Come più volte espresso dai membri dell’Araba Fenice, che conoscono bene i sentimenti di rabbia e di vendetta che questi giovani emarginati provano quotidianamente, niente è meglio per loro che offrire la possibilità di accettare una «grande sfida». Le istituzioni continuano a voler gestire queste dinamiche «dall’alto», dando vita a «luoghi di aggregazione» in cui comunque risulta predominante il controllo sulla persona.

Dall’esperienza positiva dell’autoprogettazione emerge una modalità di lavoro che apporta risultati concreti e tangibili.10 I membri del gruppo o, meglio, i costruttori del parco sono personaggi «rabbiosi e ribelli», che hanno ancora fresca nella mente l’immagine del padre dietro le sbarre o della madre alcolizzata. Solo il saper offrire e gestire forti sfide può promuovere in loro un cambiamento. Devono essere i costruttori del loro territorio per divenire i costruttori della loro vita, attraverso un processo che scaturisce dal di dentro e innesca una forte motivazione al cambiamento dello stile di vita. Inoltre, attraverso il principio dell’«aiutiamoci aiutando», i componenti dell’Araba Fenice si trasformano in erogatori di servizi per il territorio e diventano validi ascoltatori.

Questa esperienza insegna a prendere in considerazione anche percorsi alternativi rispetto a quelli voluti dalla logica delle istituzioni; a interagire con la persona, cogliendo interessi e inclinazioni naturali come elementi basilari su cui lavorare. I risultati ottenuti con incontri informali, creati grazie alla collaborazione di alcuni studiosi e ricercatori,11 hanno messo in luce la necessità di tecniche nuove, con progetti che creino momenti formativi attraverso percorsi aperti all’approfondimento dei contenuti interiori, che di volta in volta emergono e sui quali è possibile focalizzare l’attenzione dei ragazzi. I giovani del quartiere si rapportano al gruppo Araba Fenice con serenità, vivendo momenti formativi o ricreativi. Tra di essi vi sono anche legami di parentela e gli insegnamenti del sabato12 riverberano poi durante la settimana tra le mura familiari.

Il lavoro nella costruzione dei plastici ha evidenziato grandi capacità nell’uso del legno. Inoltre alcuni si sono distinti in particolar modo per le abilità presentate nella manutenzione. Redoane ha il diploma di falegname ed è un ragazzo capace, equlibrato e ricco di senso comunitario; più volte ha espresso il desiderio di poter avere un laboratorio di falegnameria. Al momento si è costruito un «laboratorio» totalmente impraticabile, nel sottoscala di uno stabilimento, dove crea cose stupende come la pagoda islamica che ha offerto per la Conferenza «Carcere e città».Il lavoro effettuato dall’Azienda ASL nel 2003, di rifacimento dell’esterno, ha permesso un proseguo delle attività di abbellimento della sede attraverso l’originalità artistica presente in molti utenti del Ser.T, espressa con ritocchi di smalto colorato nelle inferriate di porte e finestre, nonché in alcune frasi significative della considerazione di un senso profondo di appartenenza allo spazio. La Circoscrizione Viareggio-Nuova, che ha permesso il nascere dell’esperienza del parco, ha manifestato più volte la preoccupazione per un «eccessivo senso di possesso» dell’area, sviluppando col gruppo un feedback negativo in cui emergono conflittualità e scarsa collaborazione. Benedetta, che abita di fronte al parco in una casetta di edilizia popolare, si è fatta portavoce del progetto e ha raccolto le firme. Da notare che, in precedenza, l’area era disprezzata totalmente dagli abitanti del quartiere e l’unico uso che ne veniva fatto era quello di portarvi i cani per soddisfare i loro bisogni fisiologici. Anche se molti tranquillamente inseriti in lavori qualificanti.

Dal 2001 sono drasticamente diminuiti gli interventi in Comunità terapeutiche. Dal luglio 2005 le attività del gruppo si sono intensificate in una costruzione di progetti e reti con altre Associazioni e Fondazioni, con obiettivi di formazione innovativi. Il gruppo ospita la prof. Idana Pescioli e la psicoterapeuta e psicologa Vieva Casini, il maestro Sergio Viti del Gruppo Universitario Studenti Insegnanti Aggiornamento Sperimentazione (fondato nel 1966 all’Università di Firenze).
Nascono nuovi progetti che si pensa di realizzare in futuro.

Seminario presso il Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università di Pisa

Il giorno 19 Maggio ore 9 – 13 presso il Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università di Pisa in Via Colombo n. 35 a Pisa si terrà un Seminario dal titolo:”Dal paradigma burocratico al progetto condiviso”.
L’autoprogettazione in una esperienza di Ser.T, raccontata nel libro di di Emma A. Viviani Una tribù all’ombra delle foglie di coca, ETS Pisa 2010. Il libro e di conseguenza il seminario nascono dall’esperienza del gruppo di automutuoaiuto del Ser.T di Viareggio denominato Araba Fenice (successivamente affiancato dall’omonima associazione onlus ) basato sul principio della progettazione partecipata. Dopo la presentazione della dr.ssa Elisa Matutini dell’Università di Pisa, seguirà l’illustrazione di tale esperienza da parte della Dr.ssa Emma Viviani, che del gruppo è stata ideatrice e referente ASL. Il Prof. Silvano D’Alto dell’Università di Pisa parlerà poi dell’autoprogettazione degli spazi nella metodologia del gruppo (parco la Fenice etc.) Seguirà la proiezione di un audiovisivo realizzato da alcuni studenti del Corso di Laurea Specialistica in cinema dell’Ateneo pisano (M. Guelfi, A. Farnocchia, G.Stefanelli), girato proprio durante una delle varie iniziative autoprogettate del gruppo.Saranno poi alcuni utenti che, nello spirito partecipativo che caratterizza l’esperienza presentata dal Seminario, saranno essi stessi relatori raccontando le loro storie e la loro appartenenza al gruppo.Concluderà la mattinata il Prof. Raffaello Ciucci, Presidente del Corso di Laurea in Scienze Sociali e Servizio Sociale dell’Università pisana, che ha curato la prefazione del libro di Emma Viviani e segue da anni con attenzione questo lavoro di ricerca sociale innovativa portando la sua collaborazione.

UN SEMINARIO FURORI DAL COMUNE ALL’UNIVERSITA’ DI PISA

Pisa 19/05/2010,fino a qualche giorno fa erano gli utenti del Ser.T( servizio tossicologico) di Viareggio, oggi si sono trasformati in relatori ad un seminario che si è svolto presso il Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università di Pisa.
In occasione del libro di Emma Viviani “Una tribù all’ombra delle foglie di coca” che racconta il cammino del gruppo del Ser.T, cresciuto negli anni, prendendo sempre più consapevolezza delle proprie capacità umane e intellettuali, lontano dall’abituale stigmatizzazione di “tossico”. Come meglio poteva essere presentato un simile libro se non attraverso gli occhi e la bocca dei protagonisti stessi?

Entusiasti di poter partecipare ad una tale esperienza, i neo-relatori hanno ottenuto permessi dal lavoro e addirittura alcuni perfino dal Magistrato di Sorveglianza. I neo-relatori hanno sfoggiato il loro miglior abito e con una chiarezza accademica hanno esposto quello che nel più profondo del cuore li tocca ormai da tanti anni.
Non sono stati eccelsi solo nel parlare ma anche nel farsi ascoltare ed apprezzare da centinaia di studenti che dalle nove alle quattordici non si sono alzati dai propri banchi praticamente mai. La giornata di studi si è conclusa con la conferenza del Prof. Raffaello Ciucci, curatore della prefazione del libro della Viviani, che ha dichiarato siglata la rivoluzione nel rapporto terapeutico con l’utente, visto ormai come persona a tutti gli effetti.

Quello che dal libro di più ‘rivoluzionario’ emerge, usando le stesse parole che il Prof. Ciucci adopera, é: ” la scoperta straordinaria e paradossale della ‘bellezza’, fatta in un grigio stanzone di un Ser.T da un operatore sociale con un gruppo di tossici usciti dal carcere di Lucca: uomini e donne finalmente ascoltati come persone, che rivelano la loro sorprendente bellezza sotterrata sotto un cumulo di rifiuti” ( tratto dalla prefazione di Raffaello Ciucci).

Il Parco di Studio e riflessioni di Attigliano 2010

Riflessioni a cura di dr.ssa Emma Viviani ( Laboratorio Toscano di Sociologia)

Dal 29 al 31 ottobre 2010, si è tenuto il 2° Simposio Internazionale Promosso ed organizzato dal Centro Mondiale di Studi Umanisti dal titolo “Fondamenti di una Nuova Civiltà”. E’ stato un momento di incontro tra rappresentanti di diverse culture, credenze e ideologie, per lavorare alla costruzione di nuova civiltà planetaria fondata sulla centralità dell’essere umano e sulle pratiche di nonviolenza attiva. L’evento ha visto la partecipazione di professionisti legati alle scienze, ai centri universitari, alle organizzazioni sociali e culturali e ai mezzi di comunicazione di massa.

L’assetto economico-sociale, politico-istituzionale, nonché religioso e spirituale, oggi mette in luce una grave crisi etica, valoriale, che si riflette in ogni angolo del nostro vivere quotidiano e porta alla consapevolezza che è necessario cambiare il nostro attuale modello culturale di vita. Riscoprire l’uomo come soggetto composto di sentimento, spiritualità, al di là delle sue componenti genetiche e cromosomiche e sviluppare un’unica coscienza di bene comune e di sostenibilità ambientale e sociale. I temi trattati dai relatori hanno offerto stimoli di riflessione profonda che i partecipanti hanno colto con entusiasmo e apprezzamento. Questo Simposio ha evidenziato che è possibile costruire un mondo senza violenza, che c’è ancora una speranza per poter superare questa fase e riconoscere il proprio simile con fratellanza e comunione anziché con violenza e barbarie.

La non-violenza si insegna e si deve apprendere come uno strumento didattico per crescere culturalmente con un modello diverso di rapportarsi all’altro, rispetto a quello attuale. Il Simposio è risultato un ponte, un valico tra l’attuale cultura e quella da costruire, ma questa nascerà solo da un impegno comune di ciascun uomo che accetta di vivere in comunità con i suoi simili, senza sfruttamento e violenza.

Nascerà un nuovo uomo, solo dalle fatiche e dalla forza che oggi la nostra generazione saprà imprimere agli attuali sistemi e all’assetto istituzionale dominante. La sostenibilità ambientale e sociale vede l’uomo al centro del sistema come protagonista dell’agire umano, attraverso messaggi culturali profondi e di non-violenza. La nostra società genera dipendenza perché l’attuale sistema crea forme di dominio dell’uomo sull’altro uomo, ma è possibile sviluppare modelli dove il doping non serve e dove l’inquinamento ambientale e sociale scompare.L’uomo è composto anche di spiritualità che non si riconduce a quella o questa religione ma ad una profondità individuale che diviene una ricerca continua di sé in rapporto agli altri e di ascolto profondo dell’ignoto in una dimensione comunitaria. Filmati e esperienze compiute da associazioni che operano in tutto il mondo hanno aperto gli orizzonti ad un benessere spirituale dove l’uomo si congiunge con il divino. Bellezza, bontà, amore, sembrano possibili anche nei luoghi più degradati, più abbandonati, dove vi è la volontà di costruire insieme e ricominciare da capo quando la vita offre delusioni e sconfitte. I protagonisti del Simposio sono stati i giovani che hanno partecipato attivamente e riversando quella attenzione e passione che normalmente scompare in altri ambiti di vita quotidiana. I loro interrogativi mettono in luce la necessità di un cambiamento ma anche la speranza che questo possa verificarsi, perché loro ci credono e loro rappresentano i fondamenti della Nuova Civiltà.

Abstract

Città emarginazione autoprogettazione: Per una nuova cultura del territorio L’emarginazione viene vissuta non solo come fenomeno sociale ( e istituzionale) ma anche spaziale e culturale, producendo forme dell’abitare originali e creative, che se sapute cogliere possono divenire elementi innovativi all’interno del tessuto urbano e propulsori di energie nuove per la città. La forza che occorre per apportare un cambiamento in ambito sociale e culturale è notevole, e cresce lentamente nell’ambito di micro-fenomeni sociali a cui non sempre la città presta attenzione in quanto si sente forte delle sue sentinelle e fortini, attraverso il controllo istituzionale e la sicurezza. Si crea una tensione di pari potenza: da una parte la città esclude e rifiuta la diversità, ma è proprio, dalla resistenza di questa, dalle energie profuse dalla marginalità, che la città avrà garantita la sua sopravvivenza; i ghetti newyorkesi ne sono un esempio concreto; così come i “barrios” ( casupole/baracche) del Venezuela. Esempi questi di luoghi della marginalità che vivono a fianco della città ‘formale’, in un mondo parallelo, conservando le tradizioni africane e dei popoli tribali. Sono proprio questi mondi fatti di personaggi non accettati dalla città perché non hanno i requisiti richiesti per accedervi, a disegnare all’interno del tessuto urbano nuove trame di vita: ricca di cultura, di sapori e suoni diversi; dove si mantengono vive le tradizioni e le culture di un popolo. Questi elementi nuovi, all’inizio rifiutati, verranno lentamente a diffondersi generando nuove mode, vedi il blues, il jazz, il rap … Spesso sono proprio le giovani generazioni a captare le innovazioni che provengono dal mondo delle periferie, dei ghetti newyorkesi e divenire i mediatori tra la città istituzionale e quella informale.

Cominciare dagli ‘esclusi’ per costruire la città non è un’utopia ideale, ma una utopia concreta: una necessità. Emma Viviani dopo aver condotto l’esperienza del Parco Sociale La Fenice a Viareggio in collaborazione con la Fondazione Michelucci di Firenze e l’Università di Pisa, traccia un percorso metodologico di autoprogettazione, degli spazi esterni ed interni alla persona, nell’ambito di una sostenibilità umana oltre che ambientale e sociale.

Il Parco di Studio e Riflessione di Attigliano 2010

Riflessioni …. a cura di dr.ssa Emma Viviani ( Laboratorio Toscano di Sociologia)

Dal 29 al 31 ottobre 2010, si è tenuto il 2° Simposio Internazionale Promosso ed organizzato dal Centro Mondiale di Studi Umanisti dal titolo “Fondamenti di una Nuova Civiltà”. E’ stato un momento di incontro tra rappresentanti di diverse culture, credenze e ideologie, per lavorare alla costruzione di nuova civiltà planetaria fondata sulla centralità dell’essere umano e sulle pratiche di nonviolenza attiva. L’evento ha visto la partecipazione di professionisti legati alle scienze, ai centri universitari, alle organizzazioni sociali e culturali e ai mezzi di comunicazione di massa. L’assetto economico-sociale, politico-istituzionale, nonché religioso e spirituale, oggi mette in luce una grave crisi etica, valoriale, che si riflette in ogni angolo del nostro vivere quotidiano e porta alla consapevolezza che è necessario cambiare il nostro attuale modello culturale di vita. Riscoprire l’uomo come soggetto composto di sentimento, spiritualità, al di là delle sue componenti genetiche e cromosomiche e sviluppare un’unica coscienza di bene comune e di sostenibilità ambientale e sociale. I temi trattati dai relatori hanno offerto stimoli di riflessione profonda che i partecipanti hanno colto con entusiasmo e apprezzamento. Questo Simposio ha evidenziato che è possibile costruire un mondo senza violenza, che c’è ancora una speranza per poter superare questa fase e riconoscere il proprio simile con fratellanza e comunione anziché con violenza e barbarie. La non-violenza si insegna e si deve apprendere come uno strumento didattico per crescere culturalmente con un modello diverso di rapportarsi all’altro, rispetto a quello attuale. Il Simposio è risultato un ponte, un valico tra l’attuale cultura e quella da costruire, ma questa nascerà solo da un impegno comune di ciascun uomo che accetta di vivere in comunità con i suoi simili, senza sfruttamento e violenza. Nascerà un nuovo uomo, solo dalle fatiche e dalla forza che oggi la nostra generazione saprà imprimere agli attuali sistemi e all’assetto istituzionale dominante. La sostenibilità ambientale e sociale vede l’uomo al centro del sistema come protagonista dell’agire umano, attraverso messaggi culturali profondi e di non-violenza. La nostra società genera dipendenza perché l’attuale sistema crea forme di dominio dell’uomo sull’altro uomo, ma è possibile sviluppare modelli dove il doping non serve e dove l’inquinamento ambientale e sociale scompare.

Filmati e esperienze compiute da associazioni che operano in tutto il mondo hanno aperto gli orizzonti ad un benessere.spirituale dove l’uomo si congiunge con il divino. Bellezza, bontà, amore, sembrano possibili anche nei luoghi più degradati, più abbandonati, dove vi è la volontà di costruire insieme e ricominciare da capo quando la vita offre delusioni e sconfitte. I protagonisti del Simposio sono stati i giovani che hanno partecipato attivamente e riversando quella attenzione e passione che normalmente scompare in altri ambiti di vita quotidiana. I loro interrogativi mettono in luce la necessità di un cambiamento ma anche la speranza che questo possa verificarsi, perché loro ci credono e loro rappresentano i fondamenti della Nuova Civiltà. L’Associazione Araba Fenice onlus di Viareggio ha presentato l’esperienza del parco La Fenice, raccolta nel libro ” Il Parco Sociale La Fenice a Viareggio, edito dalla Fondazione Michelucci di Firenze e presentato in Sala Consiliare del Comune il 28 Settembre 2007. Progetto nato in collaborazione con la Fondazione Michelucci di Firenze e l’Università di Pisa, traccia un percorso metodologico innovativo sulle problematiche della marginalità sociale e il territorio. Il progetto presentato da Emma Viviani ha riscosso apprezzamenti da rappresentanti di organizzazioni provenienti da ogni parte del mondo.